HATE SPEECH - Odio online, basta impunità: servono nuove norme e responsabilità collettiva

Pubblicato il 20 giugno 2025 alle ore 18:27

Luciano DAFFARRA

C-Lex Studio Legale

L’odio digitale prospera dove il diritto non arriva. Le piattaforme americane si trincerano dietro il Primo Emendamento, compromettendo l’efficacia dell’azione penale italiana contro l’hate speech.

L'hate speech, tradotto con le parole “discorso d’odio”, è divenuto negli anni recenti un fenomeno giuridico, sociale e culturale che occupa un ruolo centrale nel dibattito pubblico europeo.

In particolare, il trasferimento del confronto politico sulle piattaforme digitali ha prodotto un nuovo spazio comunicativo — quello dei social network — nel quale gli strumenti normativi tradizionali appaiono inadeguati a regolarne l’impatto.

Il caso Stormfront: precedente giurisprudenziale sull’odio online
Tra i precedenti più significativi, spicca il cosiddetto “processo Stormfront”, che ha condotto a condanne penali in primo grado per venticinque imputati e, più recentemente, alla pronuncia della Corte di cassazione del 6 dicembre 2024 (depositata il 26 marzo 2025), la quale ha confermato l’impianto accusatorio a suo tempo elaborato dal P.M. Luca Tescaroli, ritenendo integrati i reati di istigazione all’odio razziale e di diffamazione aggravata, oltre che le responsabilità degli indagati nella partecipazione al network di una comunità neonazista.

A questo caso, si affianca l’inchiesta condotta dal Tribunale di Milano sulle 246 querele sporte dalla senatrice a vita Liliana Segre per i messaggi antisemiti e diffamatori ricevuti attraverso le piattaforme on-line, a testimonianza del perdurare di un fenomeno che, seppur disapprovato a livello politico e mediatico, trova ancora ampi spazi di impunità giuridica nei vuoti della cooperazione tra le diverse giurisdizioni a livello globale e nella debolezza dei mezzi investigativi a disposizione dell’autorità giudiziaria.

Il sito web Stormfront, i cui server erano ospitati in Florida negli Stati Uniti, costituiva una piattaforma a vocazione suprematista bianca e neonazista, articolata in “sezioni” nazionali tra cui spiccava quella italiana, amministrata da un gruppo articolato di soggetti che si sono avvicendati nel tempo nella sua gestione.

I contenuti a suo tempo pubblicati dagli utenti, protetti da pseudonimi e moderati da amministratori nominati dalla loro stessa comunità, costituiscono atti estesi di diffamazione reiterati e sistematici rivolti nei confronti di esponenti ebrei, intellettuali, politici, magistrati e cittadini comuni. Tra le parti civili si sono costituite note personalità come Riccardo Pacifici, Roberto Saviano, Giuseppina Nicolini, Enrico Sassoon e altri. Il Tribunale di Roma ha riconosciuto la sussistenza di un sistema organizzato volto alla propaganda dell’odio razziale e alla diffusione di messaggi lesivi della dignità e dell’onore delle persone offese, fondando la condanna sull’articolo 3 della legge 654/1975 (oggi traslato nell’art. 604-bis del Codice penale, dopo la riforma introdotta dal D.lgs. 21/2018) e sull’art. 595, comma 3, in tema di diffamazione attraverso la comunicazione al pubblico.

Le conferme della Cassazione sui reati di odio online
La Corte d’Appello di Roma ha parzialmente riformato la sentenza di primo grado in data 22 aprile 2022, dichiarando la prescrizione dei reati ma confermando tutte le statuizioni civili. Infine, la Cassazione ha annullato senza rinvio solo le condanne al risarcimento danni in favore di alcune delle parti civili, nei casi in cui non era stata dimostrata la connessione tra contenuti pubblicati e i soggetti lesi.

La stessa Corte ha peraltro confermato la responsabilità penale degli imputati condannati in primo grado per la diffusione di contenuti idonei a incitare alla discriminazione e alla violenza su base razziale, escludendo con nettezza l’applicabilità della scriminante del diritto di critica. Secondo la Suprema Corte, la propaganda razzista “non è un’opinione” e non può essere giustificata dal principio costituzionale della libertà di manifestazione del pensiero (Art. 21 della Costituzione), il quale trova un limite insormontabile nella tutela della pari dignità e dell’uguaglianza sostanziale (Art. 3 della Costituzione).

La natura giuridica dei reati di hate speech online
Il reato di propaganda di idee fondate sull’odio razziale e quello di istigazione alla discriminazione o alla violenza sono entrambi considerati delitti di pericolo, nei quali l’efficacia persuasiva o imitativa del messaggio assume rilevanza anche indipendentemente dal suo recepimento da parte della persona offesa.

Per la Cassazione, la semplice pubblicazione di “post”, commenti, “like” e “link” in forum digitali apertamente razzisti — come Stormfront — è già di per sé comportamento idoneo a rafforzare e diffondere un messaggio d’odio, partecipando così al disegno criminoso collettivo. Si tratta quindi di reati che, pur fondandosi su atti di comunicazione, esorbitano dallo spazio costituzionalmente protetto della libertà d’espressione e si collocano in un’area penalmente rilevante proprio per la loro capacità di offendere beni giuridici fondamentali come l’uguaglianza, l’integrità morale e la sicurezza delle minoranze.

All’interno del dibattito apertosi sul contrasto ai discorsi di odio on-line, la giurisprudenza italiana ha assunto negli anni una posizione coerente con il dettato della Convenzione di New York del 1966 e con gli orientamenti della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Secondo quest’ultima, la libertà d’espressione garantita dall’art. 10 della Convenzione non può essere invocata per giustificare la diffusione di contenuti che negano la “Shoah” o che inneggiano a ideologie totalitarie ispirate all’odio. In questa prospettiva, il caso Stormfront si configura come un banco di prova riuscito per l’efficacia deterrente del diritto penale, almeno nei confronti dei soggetti individuabili, rinviabili a giudizio e condannabili.

Tuttavia, proprio questo processo rende evidente il paradosso attuale: la maggior parte dei contenuti d’odio presenti in rete non proviene da siti organizzati come Stormfront, ma da social network di uso quotidiano — Facebook, X (ex Twitter), Instagram, Telegram — in cui l’anonimato e la mancata cooperazione dei gestori delle piattaforme ostacolano sistematicamente le indagini.

Il caso Segre e i limiti investigativi dell’hate speech
Tale circostanza è dimostrata proprio dall’inchiesta milanese aperta a seguito delle numerose querele presentate dalla senatrice Liliana Segre per i messaggi diffamatori e antisemiti da essa stessa ricevuti on-line. I contenuti oggetto di querela, spesso accompagnati da immagini, insulti, minacce, accostamenti alla figura del “kapò” o del “nazista”, sono stati ritenuti in larga parte gravemente offensivi dal giudice per le indagini preliminari. Tuttavia, l’impossibilità di identificare gli autori — a causa della mancata risposta di service provider come Facebook, Google, X e Telegram — ha compromesso l’efficacia dell’azione penale.

Nonostante siano stati emessi numerosi decreti di acquisizione dei dati relativi ai responsabili delle violazioni di legge da parte dei magistrati inquirenti, le piattaforme si sono trincerate dietro il diritto statunitense alla libertà d’espressione (c.d. “Primo Emendamento” della Carta costituzionale degli U.S.A.), il quale nel proprio ambito interpretativo connotato dalle decisioni della Suprema Corte, protegge contenuti che in Italia integrano comportamenti sanzionati penalmente. Il GIP di Milano ha sottolineato, nella recente ordinanza del 28 aprile 2025, come la strategia processuale debba ormai adattarsi a questo scenario: richiedere dati tramite rogatoria verso gli USA è sostanzialmente inutile, poiché le autorità americane non danno seguito a indagini per reati considerati, nel loro ordinamento, privi di offensività.

 

 

L’odio on-line è il sintomo di un malessere che si esprime con ferocia proprio dove lo Stato è più debole, di conseguenza, contrastarlo non è una questione di censura, ma di civiltà. A tale fine, serve una volontà politica che consideri la lotta ai discorsi d’odio una priorità nazionale ed europea, capace di coniugare sicurezza giuridica e tutela della dignità. Non sono sufficienti nuove norme, servono anche consapevolezza, formazione e responsabilità collettiva. La memoria, specie quella dolorosa di chi ha vissuto l’odio nella sua forma più estrema, non può restare indifesa in un tempo in cui la storia viene travisata con un clic. Chi è colpito dall’hate speech non chiede vendetta: chiede giustizia. E in una democrazia, fare giustizia significa impedire che l’odio abbia l’ultima parola.

L'articolo integrale è stato pubblicato sulla rivista digitale AGENDA DIGITALE il 17 giugno 2025 e lo trovate, con tutti gli altri articoli dell'autore, al seguente link:

https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/odio-online-basta-impunita-servono-nuove-norme-e-responsabilita-collettiva/ 

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